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L’evoluzione della regolamentazione sportiva e il ruolo del DASPO

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Alcuni concetti legati alla violenza non sono definiti in modo appropriato, mentre il modello e la tipologia del comportamento aggressivo variano tra gruppi di atleti e tifosi. Alcuni tendono a raggruppare tutti gli sport in un’unica categoria, senza considerare le differenze legate al concetto, all’organizzazione, agli obiettivi o al livello di contatto fisico. Spesso risulta difficile distinguere tra gli effetti a breve e lungo termine della violenza sugli individui e sui loro modelli comportamentali.
Dunning (1999) ritiene che la violenza nello sport continuerà a esistere nelle società moderne, poiché la natura stessa dello sport si fonda sullo sviluppo della tensione piuttosto che sul rilassamento. Il termine “aggressività” è spesso utilizzato in modo improprio. I risultati di uno studio condotto nel 2010 per identificare i fattori che causano violenza e aggressività negli impianti sportivi hanno dimostrato che un arbitraggio adeguato ha l’impatto maggiore, mentre la punizione degli individui aggressivi risulta avere effetto minore nel ridurre l’aggressività tra atleti e spettatori.

Considerando le prospettive sociologica e psicologica sulla violenza nello sport, il principio comunemente accettato nella comunità sportiva internazionale che separa l’intervento delle leggi nazionali da quello di altri attori è il principio dell’autonomia sportiva.
L’Europa rappresenta un esempio significativo di applicazione di questo principio. Nel XX secolo, la maggior parte dei paesi europei ha consentito alle organizzazioni sportive di svilupparsi come entità indipendenti dalle autorità pubbliche. Questa nuova libertà ha permesso a club e federazioni, sia europee che internazionali – con l’eccezione dei Comitati Olimpici Nazionali (CNO) e del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) – di operare quasi completamente in modo autonomo dai governi nazionali e locali, autoregolamentandosi

Nel 1976 fu adottata la Carta europea dello sport per tutti, sostituita poi nel 1992 dalla Carta europea dello sport, che affronta tematiche quali il doping e la violenza degli spettatori. Questo ha portato all’adozione di importanti convenzioni su ciascuno di questi aspetti. La Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha emesso due sentenze in materia sportiva già negli anni Settanta, ma solo negli anni Novanta l’Unione ha cominciato a intervenire nel settore, una volta che lo sport è stato riconosciuto come attività economica. (All’epoca, l’UE non aveva competenza generale in materia sportiva). La sentenza Bosman del 1995 fu considerata un’ingerenza indebita da parte delle istituzioni pubbliche e una violazione dell’autonomia delle organizzazioni sportive, in particolare nel calcio.

In Europa, dove si è storicamente cercato di mantenere al minimo l’intervento statale nello sport, si sono comunque verificati tentativi di comprometterne l’autonomia. Un esempio è rappresentato dall’inclusione del concetto di “specificità dello sport” nella fallita Costituzione europea e nel Trattato di Lisbona, a dimostrazione del crescente interesse dell’UE per le questioni sportive. Tale interesse si traduce in un’accettazione di regole specifiche per lo sport solo quando effettivamente giustificate dalla sua peculiarità (Blackshaw 2007). Si ritiene generalmente che lo sport rischi di perdere la propria autonomia a causa dell’intervento statale, reso più probabile dalla sua crescente rilevanza economica e popolarità (Manner, 2002). Questa previsione ha spinto alcuni politici a tentare di interferire con lo sport attraverso la politica, ma è stata contrastata dalla dottrina della non interferenza, sancita a livello internazionale.

È noto, tuttavia, che nonostante i cambiamenti, lo sport non è stato privato della sua autonomia nell’ambito penale. Gli organismi sportivi sostengono che le loro regole siano finalizzate alla tutela delle dinamiche interne allo sport e non per perseguire i criminali.

Il DASPO è una misura legale italiana, acronimo di “Divieto di Accesso alle Manifestazioni Sportive”. Si tratta di uno strumento preventivo introdotto per contrastare la violenza negli impianti sportivi, esteso successivamente ad altre situazioni considerate a rischio per l’ordine pubblico, come spiegato dall’Avvocato Facile. In sostanza, consiste nel divieto imposto a una persona di accedere a determinati luoghi o eventi sportivi. La durata può variare da uno a cinque anni e il provvedimento può essere emesso da un ordine da parte della polizia oppure dai giudici, in seguito a una condanna penale.

Naturalmente, casi simili si verificano anche in altri Paesi per prevenire la violenza nello sport e mantenere l’ordine pubblico. Tuttavia, in tutti questi contesti è il tribunale — e non la polizia — a decidere sulla colpevolezza della persona, dopo aver esaminato il caso specifico. La polizia può al massimo eseguire un ordine emesso dal tribunale, in qualità di autorità amministrativa. Il verdetto viene emesso sulla base del principio di presunzione di innocenza, del principio di interpretazione favorevole all’imputato, delle condizioni di salute mentale e dell’assenza di precedenti penali, nel rispetto delle leggi sui diritti umani e dei precedenti legislativi del Paese. Del resto, nei casi penali, anche l’autorità del giudice è fortemente vincolata dalle leggi.

Il Regno Unito ha introdotto una normativa specifica in materia di “ordini di interdizione calcistica”, prevista dal “Football Spectators Act 1989”. Tali provvedimenti sono spesso disposti dai tribunali dopo una condanna per reati connessi al calcio, o quando si ritiene che l’individuo abbia causato o contribuito a episodi di violenza o disordine. Possono includere l’obbligo di consegnare il passaporto in occasione di tornei internazionali. Il Regno Unito pubblica regolarmente statistiche sugli arresti e sulle misure interdittive adottate.

In Germania esistono divieti di accesso agli stadi (Stadionverbot), generalmente emessi dai club o dai gestori degli impianti, che possono essere influenzati da raccomandazioni della polizia. La Corte Costituzionale Federale tedesca si è espressa in merito alla legittimità di tali divieti, sottolineando la necessità di garanzie procedurali e giustificazioni, anche in assenza di prove di reato, purché sussista un fondato timore di disordini futuri.

Un caso significativo è quello della Croazia (Serazin contro Croazia) esaminato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha confermato la possibilità di misure di prevenzione che vietino l’accesso agli stadi e impongano la presentazione presso le forze dell’ordine.

La maggior parte dei paesi europei dispone di quadri giuridici o misure amministrative simili per contrastare il teppismo sportivo e impedire l’accesso agli stadi da parte di soggetti già noti come pericolosi per l’ordine pubblico. Tali misure si fondano su leggi nazionali sull’ordine pubblico o su normative sportive specifiche.

L’Italia è uno dei pochi paesi europei ad aver registrato una crescita relativamente lenta nel riconoscimento dei diritti sportive, nonostante l’alto livello delle sue prestazioni internazionali. Nonostante la presenza di norme sportive nelle legislazioni codificate della maggior parte dei paesi, solo nel 2023 l’Italia ha modificato l’articolo 33 della Costituzione riconoscendo lo sport come diritto della nazione (in ogni suo apetto).

In Italia, il Tribunale Arbitrale dello Sport è supervisionato dal CONI, contravvenendo così al principio di indipendenza dei tribunali sportivi. Per questo motivo il TAS/CAS si è reso indipendente dal CIO. L’evoluzione giurisprudenziale ha portato a una doppia configurazione del sistema sportivo, che risulta parzialmente integrato e parzialmente separato dal sistema statale. Le norme che regolano le competizioni sportive non trovano collocazione nelle categorie classiche del diritto statale, poiché derivano da accordi specifici e le istituzioni sportive possiedono caratteristiche uniche rispetto ad altri enti.

Il DASPO rappresenta un’ulteriore forma di ingerenza statale negli affari sportivi: non solo viola il principio di autonomia dello sport, ma può anche compromettere i diritti individuali e umani. La gestione e la prevenzione della violenza nello sport sono responsabilità fondamentali dell’organizzatore e dei club, e non vi si è contrari in linea di principio. Tuttavia, il ritardo nell’adeguamento della Costituzione in qualità di legge madre, la scarsa attenzione ai diritti individuali nei provvedimenti sportivi non specialistici, la violazione dell’autonomia delle autorità sportive e la sovrapposizione di giurisdizioni tra autorità giudiziarie e disciplinari rendono necessaria una revisione del DASPO, poichè Il legislatore deve considerare che, nel diritto penale, il principio fondamentale è la prevenzione dei reati, non semplicemente la punizione dei colpevoli (articolo 27 della Costituzione).

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