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Scarcerazione condannati “Cosa mia”, la Camera Penale di Palmi difende i giudici reggini

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Si schiera dalla parte del giudice della Corte d’Appello la Camera Penale di Palmi, difendendo il magistrato balzato sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali per non aver depositato le motivazioni della sentenza “Cosa mia”, e cagionando la scarcerazione di tre soggetti già condannati anche in secondo grado.

In una nota stampa diramata si legge: “La Camera Penale di Palmi esprime ferma disapprovazione nei confronti dell’aggressione a mezzo stampa diretta contro il giudice relatore del procedimento “Cosa Mia”, che si sarebbe reso responsabile di colpevole ritardo nella stesura della motivazione della sentenza pronunciata il 27 luglio 2015 con conseguente scarcerazione di 3 dei 46 imputati giudicati”.

Il giudice reggino, dopo la pronuncia della sentenza d’appello, doveva depositare il faldone con le motivazioni entro 90 giorni; il carico di lavoro lo ha indotto a chiedere una proroga che però non è stata rispettata.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria è costretta a lavorare sotto organico; i magistrati non reggono la mole di lavoro a loro carico che a volte, può succedere, sfocia in episodi gravi proprio come quello di recente accaduto.

Si legge ancora nella nota: “Colpisce sia la smaccata disinformazione sui fatti sia l’avventatezza delle considerazioni che ne sono state tratte. Colpisce anche il tentativo di stigmatizzare la condotta negligente – se non addirittura complice – dei giudici di appello esaltata attraverso il confronto con quella “eroica” dei Giudici di primo grado. La realtà della condizione nella quale operano i giudici della Corte di Appello di Reggio Calabria è totalmente ignorata dai mezzi di informazione”.

Dunque anche la Camera Penale di Palmi punta il dito contro la carenza di organico e aggiunge: “È bene che si sappia che da quando è stato abolito il principale strumento deflattivo del carico di lavoro delle Corti di Appello, il concordato ex articolo 599 del codice di procedura penale, caduto sotto i colpi della Guerra Santa contro gli incentivi premiali agli appellanti che vi aderivano, il lavoro dei giudici d’appello, e in particolare quello riguardante i processi più complessi, si è almeno triplicato ad organico sostanzialmente immutato”.

Il processo “Cosa mia” è stato complesso si dall’inizio, e secondo i membri della Camera Penale di Palmi, si è caratterizzato per i seguenti quattro elementi: il giudizio di primo grado è arrivato 4 anni dopo gli arresti, perché il processo si è svolto in decine e decine di udienze; la mole di lavoro dei “giudici della Corte di Assise di Palmi, soprattutto in termini di numero di sentenze, non è nemmeno comparabile con quello di magistrati che compongono la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria contemporaneamente impegnati nei collegi penali ordinari e nelle sezioni misure di prevenzione e minorenni”, si legge nella nota. Inoltre, non può essere addebitata al giudice l’oggettiva difficoltà di gestione di processi monster come “Cosa Mia” riguardanti numero 46 imputati ed un elevatissimo numero, 55, di imputazioni tra le quali 7 di omicidi. Infine, “tali obiettive condizioni di complessità avevano già prodotto la scarcerazione di una parte degli imputati in ragione della decorrenza dei termini massimi previsti per la fase del giudizio di primo grado che si era protratto dal momento del rinvio a giudizio fino alla sentenza per ben tre anni e quattordici giorni”.

Conclude la nota: “l’unico colpevole dilettantismo è quello dei professionisti dell’antimafia che hanno pesantemente contribuito a determinare la situazione prima descritta, promuovendo l’annullamento di quei dispositivi di legge che il Codice di rito dell’89 prevedeva quale condizione essenziale per il corretto funzionamento del processo, e che abusando delle fattispecie associative hanno trasformato il processo penale in strumento di bonifica sociale contro moltitudini di cittadini, gestibile solo al prezzo dell’annichilimento delle garanzie degli imputati (comprese quelle della durata ragionevole e del minor sacrificio possibile della libertà personale)”.

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