Ultimo appuntamento del diario quotidiano di Marika Surace da Lesbo.
Lesbo – ultimo giorno
In questa terra di frontiera, dove bellezza e tragedia si specchiano su uno stretto di mare, succede che si faccia amicizia con i ragazzi di Frontex, e che loro ti raccontino quanto sia frustrante non poter salvare più gente, e nonostante l’addestramento e la preparazione, non si aspettavano i volti, le facce, la gratitudine.
Succede che prendi la macchina e vai a cercare Giulietta, una delle stazioni radio ‘clandestine’, con i ragazzi che si piazzano su una collina di avvistamento, dentro una specie di baracchina di lamiere colorate, per capire se qualcuno, almeno oggi, arriverà. Continuano a diminuire gli sbarchi, la Turchia ha deciso che per un po’ interpreterà il ruolo di chi adempie alla sua parte di contratto, recitando dunque una severità ligia che ha poco a che fare con il bene dei migranti (che pure, come aveva già sottolineato Renzi ad Amsterdam, era la finalità dell’accordo tra UE ed Erdogan).
Ma succede anche che è l’ultimo giorno sull’isola, e che pensi che sarà impossibile dimenticare. Quando due giorni fa siamo tornati a Moria, il campo quasi svuotato per le partenze della notte prima verso Atene, ho pensato che era la terza volta che entravo lì, e che forse mi stavo abituando a vedere i bambini che vivono tutto come un’avventura, le donne che sbucciano arance che nessuno mangia, la polizia che vorrebbe venire lì, chiederti cosa stai facendo, dirti di non fare delle foto.
Ma il problema, se problema possiamo chiamarlo, è che qui, lontani da Bruxelles, da Roma, da Amsterdam o da Berlino, non si riesce a capire il senso degli ordini, dei protocolli, delle decisioni che cambiano o che tengono in bilico un paese e chi cerca di arrivarci.
Polizia, volontari che vengono dagli stessi paesi che adesso spingono per i respingimenti (Norvegia, Danimarca, Francia), agenti di Frontex, che sono quelli che dichiarano che il 60% dei migranti è economico, nonostante sia chiaro che è quasi tutta gente sfuggita da guerre, persecuzioni, violazioni, tutti quanti, qui, perdono un po’ di quella disciplina rigida che gli appartiene, a favore del buon senso.
Perché in fondo è questo: un po’ di buon senso. Capire che non puoi chiudere il mare, non puoi impedire che la gente scappi, perché lo dice bene, benissimo, una poetessa somala, Warsani Shire, che ha scritto dei versi molto commoventi su quello che sta succedendo. La prima volta che ho sentito questi versi è stato in una chiesa di Londra, dove un prete la citava per dire ai suoi parrocchiani “Non abbiate paura, perché aprire le braccia a qualcuno non può mai fare danno. Non abbiate paura, ma piuttosto cercate di capire. Perché non è integrazione, ma piuttosto comprensione”. E poi ha letto questi versi:
Nessuno lascia casa sua,
a meno che la casa sia la bocca di uno squalo
dovete capire
che nessuno mette i figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
nessuno va a bruciarsi i palmi delle mani
sotto i treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un tir
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
abbiano un significato diverso da un qualsiasi altro viaggio.