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I miei trenta giorni in Madagascar

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Madre Teresa di Calcutta diceva che “chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano”.

E se davvero così fosse, Veronica, 23enne di Reggio Calabria, può ritenersi soddisfatta, dopo la scelta di partire la scorsa estate alla volta del Madagascar. Esperienza che le avrebbe cambiato la vita, e che lei stessa ha voluto raccontare.

“A maggio scorso mia cognata Valeria, quasi per sfida, mi disse che avrebbe organizzato un viaggio in Africa. Non un viaggio di piacere, né una vacanza… si trattava di fare un’esperienza nuova: una missione nella terra dimenticata dal resto del mondo, il Madagascar. Senza pensarci un attimo, le dissi: “Vengo con te!”. Sentivo il cuore battere forte, la voglia di organizzare tutto velocemente e partire, senza pensare al resto.

In poco tempo ci siamo messe in moto, abbiamo contattato dei nostri amici che ci hanno poi fatto parlare con chi l’Africa la vive ogni giorno, Don Claudio Roberti, un parroco reggino che ha fatto della missione uno stile di vita. Dopo diversi messaggi, finalmente avevamo deciso tutto: partenza a giugno, permanenza di un mese e ritorno ad agosto. Ad accoglierci sono state le Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù, e ad aspettarci al nostro arrivo c’era appunto Don Claudio.

Per un mese intero siamo state al loro servizio in diverse comunità che comprendono una scuola materna, frequentata da moltissimi bambini e dei dispensari, nel quale un medico e una suora infermiera offrono cure e medicine agli ammalati che bussano alla porta”.

Tornata dalla sua avventura soprattutto interiore, Veronica entusiasta e ubriaca di emozioni ha preso carta e penna e ha così descritto il suo viaggio.

“Solo alcuni di loro, i più fortunati, hanno le infradito ai piedi. Solo alcuni di loro possono indossare una felpa nei giorni più freddi e solo una parte di loro vive in una casa di legno, una baracca che nonostante gli spifferi, riesce a ripararli dal vento e dalla pioggia. Tutti gli altri sono scalzi, con le magliette strappate e i pantaloni logori, i loro piedi sporchi di fango e stanchi, le loro mani segnate dal lavoro e dalla fatica.

Ma i loro sguardi…quelli sono simili. Sguardi sorridenti. Sguardi pieni d’amore. Sguardi segnati dalla sofferenza, ma vivi. Sguardi colmi di speranza e di fraterna amicizia. Sguardi meravigliati alla vista di “Vazaha” (è così che i malgasci chiamano noi bianchi, europei, stranieri). Sguardi sbalorditi e sorpresi, ricchi di gioia e tenerezza. Sguardi che ti coinvolgono amorevolmente non appena si rendono conto di essere osservati. Sono sguardi di persone che magari dalla vita hanno avuto poco, ma che riescono in un solo attimo a trasmetterti delle emozioni difficili, forse impossibili, da descrivere e a cui dare un nome preciso.

Comunque andiamo per gradi, vorrei parlarvi e in qualche modo trasmettervi i sentimenti, tanto contrastanti quanto forti ed unici vissuti durante la mia permanenza in Madagascar.
Tutto è cominciato da Moramanga, un paesino di quasi 30mila abitanti e a 110 chilometri dalla capitale del Madagascar, Antananarivo. È qui che ci hanno accolto le “Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù”, una comunità di suore che si occupa dell’educazione dei piccoli che abitano in paese: qui i bambini frequentano la scuola elementare, hanno un pasto caldo assicurato e un punto di ritrovo e di gioco, dimenticando per un po’ la povertà che vige con e attorno a loro.

È per loro che una mattina abbiamo deciso di organizzare una festa a base di arancini italiani, pizza e carne di zebù (tipica del posto). Dopo aver fatto la spesa al mercato con Suor Isabelle, ci siamo dilettate in cucina e sedute insieme ai piccoli, gustando delle vere e proprie prelibatezze. Bocche affamate quelle, occhi felici, sorrisi che coloravano e illuminavano i loro sguardi. In poco tempo i piatti prima colmi di tante bontà, si sono svuotati, sporcando le piccole e tenere mani e riempiendo lo stomaco spesso troppo affamato.

Così, con davvero poco, abbiamo reso felici dei veri pappagalli che incessantemente continuavano a ripetere ogni parola in italiano “Buongiorno! Buon pranzo!”. Abbiamo insegnato loro bandierina, 1,2,3 stella e anche se le nostre bocche parlavano lingue differenti, i nostri cuori battevano all’unisono, le nostre mani si stringevano assieme e la nostra gioia era un’unica realtà, superando ogni diversità, ogni discriminazione, ogni tipo di odio.
Sulle note di Jovanotti e di Waka Waka, dopo aver aperto le danze, i bacini si muovevano incuranti di tutto il resto, le mani al cielo e gli occhi ricchi di felicità.

La seconda tappa è stata Anosibe An’Ala, un paese in foresta, poco distante da Moramanga, ma raggiungibile su una strada fangosa e con buche enormi. Quello che in nostri occhi hanno visto è complicato da descrivere appieno: land rover 4×4 di massimo 6 posti, su cui venivano caricati però 16 persone, con altrettante valigie sul tetto, una tanica di benzina sul sedile posteriore da cui la macchina prendeva il carburante e almeno 5/6 galline o sacchi di riso, camion caricati di 30/40 persone, con il pericolo che si ribaltasse, strada di una sola corsia percorribile da una macchina per volta che ha visto rischiare la vita moltissime volte. Anosibe An’Ala è una zona in cui è difficile vivere non solo per la povertà che caratterizza tutta la nazione, ma soprattutto perché, appunto, è davvero complicato arrivarci (nei mesi di pioggia infatti il commercio si blocca: le persone non si spostano per vendere o comprare cibo e le provviste diminuiscono a vista d’occhio). Anche qui abbiamo condiviso momenti di gioia, gioco e divertimento con bambini e ragazzi che frequentano la scuola messa a disposizione dalle suore: abbiamo insegnato loro ad impastare il pane e portato qualche ricetta tipica reggina.

La nostra permanenza è stata arricchita grazie anche e soprattutto dalla visita fatta negli ospedali della zona (Moramanga e Morondava): posti diversi, stessa situazione. Nessuno sterilizzatore, nessun disinfettante, materassi inesistenti, lenzuola logore, materiale sanitario scarsamente pulito e con la sola acqua calda, nessuna sacca di sangue, stessi utensili usati per tutte le operazioni, medici pressoché assenti. Questo lo scenario che ci ha lasciate senza fiato. E quella bambina sul lettino, con accanto i suoi genitori che pregavano affinché si potesse riprendere e riportarla presto a casa. I suoi occhi addolorati. I suoi lamenti. Il suo sguardo triste ed esausto. Le sue piccole mani. I suoi cari. La sua tenerezza. La mia impossibilità di fare qualcosa. Il mio non poter essere d’aiuto. La mia incapacità di essere forte e stringerle la mano. Le mie lacrime. Il mio silenzio… O quella ragazza diventata mamma da qualche giorno di una bellissima bimba, costretta a rimanere in un letto di ospedale finché tutti i trattamenti medici non sarebbero stati pagati completamente (200.000 Ariary, ovvero circa 50 Euro).

È così che la vita ha preso un altro ritmo, si è adeguata dolcemente a quella malgascia. Lì non ci sono orari. Non c’è fretta di fare una cosa piuttosto che un’altra. È così che ci si ritrova a dover aspettare per ore e ore un taxi brousse che partirà solo dopo essersi riempito di almeno 12/15 persone. Ci si ritrova su di un pouss pouss (una bicicletta) tirata avanti da un ragazzo scalzo che con pochi spiccioli ti porta a disposizione. Ci si ritrova a contrattare al mercato per del cocco o un ananas, scambiando un sorriso, una battuta di mano o semplicemente un “misaotra”, grazie. Così ci si ritrova sul bus assieme ad un ragazzo che sulle gambe, come se niente fosse, tiene una gallina e l’accarezza come una bambina. Fai anche i conti con chi si impegna quotidianamente a rendere migliore la vita di qualcuno: decine e decine di suore che nonostante le forze economiche siano scarse, si sporcano le mani e danno il loro meglio, garantendo ai bambini del latte caldo, dei giochi e delle medicine all’occorrenza. Sono persone ricche dentro, con un cuore grande, che danno senza la pretesa di avere nulla in cambio, a loro basta vedere i bambini sorridere, essere in salute e contenti.

Sebbene i pericoli a cui vanno incontro sono molteplici (sfruttamento minorile, prostituzione, traffico di organi), è necessario il sostegno sia economico, ma anche e soprattutto far sentire loro la nostra vicinanza. Hanno bisogno e il diritto di sognare, di vedere realizzati i loro desideri, esattamente come lo hanno tutti i bambini in ogni parte del mondo, di avere qualcuno accanto che creda in loro e a cui possono affidarsi. Ognuno di loro rimarrà per sempre impresso nel mio cuore, li ricorderò ogni volta che qualcuno mi chiederà una mano o quando porterò un sorriso a chi ne ha bisogno. Misaotra Madagascar!

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