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Lesbo – settimo giorno: e all’improvviso gli sbarchi

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Ottavo appuntamento del diario quotidiano di Marika Surace da Lesbo. Oggi Marika ha visto arrivare dal mare centinaia di persone, ne ha conosciute molte e racconta alcune delle loro storie.

Lesbo – settimo giorno

Un attimo prima a raccogliere conchiglie sulla spiaggia, perché pensi che ormai quello che c’era da vedere è già visto. L’attimo dopo correre verso il molo, perché c’è una barca della Guardia Costiera carica di gente, li vedi anche da lontano, con i giubbotti di salvataggio arancioni, seduti.

E da lì inizia una delle giornate più lunghe, quella in cui nessuno attendeva più sbarchi e invece sono arrivate centinaia di persone solo a Molivos. L’attesa è lunghissima, perché prima bisogna controllare che tutti stiano bene. E che non ci siano trafficanti, in mezzo ai profughi, oppure bambini non accompagnati. Una barca dietro l’altra, attese lunghissime, la Guardia Costiera non ha tregua, nemmeno loro si aspettavano che, dopo giorni di calma, gli arrivi ricominciassero con questo volume.

Sono l’unica giornalista oggi sul molo, ma un po’ perché c’è molta confusione, un po’ perché mi confondo in mezzo ai volontari, riesco ad ascoltare tutte le storie, a fotografare, anche solo mentalmente, tutte le facce.

E così c’è un ragazzo di Gaza che ha lasciato tutti i familiari in Palestina, e sta raggiungendo il padre in Germania, e insiste per regalarmi, una specie di gesto di gratitudine, il suo pacchetto di sigarette, l’unica cosa che ha.

C’è David, che è nato a Singapore e vive in Canada, faceva la guardia costiera ma adesso è manager, ma è venuto qui perché tra le altre cose parla anche l’arabo, e il suo aiuto è essenziale nel momento della pre-registrazione, quando tutti devono rilasciare nome, data di nascita, paese di provenienza.

E poi Georg, austriaco, detto lo snake charmer, l’incantatore di serpenti, perché a casa sua ha un giardino pieno di serpenti di ogni tipo, non voglio nemmeno sapere perché. Qui, invece, dà una mano come gli altri, e racconta di come sia difficile far convivere l’esodo con la crescente xenofobia del suo paese.

I bambini si mettono subito a giocare, hanno scarpe, pantaloni e calzini zuppi d’acqua, la prima cosa da fare è farli cambiare e dargliene degli altri. Uno di loro mi fa penare, vuole scegliere le scarpe, non si accontenta di un paio di stivaletti, vuole le sneaker, e alla fine riesco a trovarne un paio che gli stanno bene.

Un uomo ha le mani praticamente in cancrena, per il freddo, i medici si occupano subito di lui, perché non riesce quasi a muoverle. E poi arriva un volontario spagnolo con un naso da clown, e i bambini impazziscono, iniziano a ridere.

In generale, però, stanno tutti bene, molti hanno la tosse che si portano dietro dal viaggio.

Ma finalmente la registrazione, con molte difficoltà linguistiche visto che non ci sono interpreti dal curdo e dal farsi, finisce. E ci si avvia tutti su per una salita che porta a un campo da calcio alla fine del paese, dove ci sono i bus dell’UNHCR che li porteranno a Moria. Ringraziano, ringraziano per uno sguardo, per una foto, per una parola gentile. E sono incantati anche loro dall’isola, si fermano a scattare delle foto, mi chiedono se possiamo farcene una insieme. Quando salgono sull’autobus, è difficile non commuoversi. Poi vedi che loro continuano a sorridere, e allora vai incontro alla nuova barca.

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