Terzo appuntamento del diario quotidiano di Marika Surace da Lesbo. Oggi è stata a bordo della barca da soccorso di Seawatch.
Lesbo – secondo giorno
La sveglia è alle cinque, la fatica di svegliarsi è tanta, ma ancora non sappiamo cosa voglia dire muoversi con le tutone che si indossano in barca d’inverno, gialle, pesanti, larghissime. È come portarsi addosso qualcun altro. E poi, ovviamente, il giubbotto di salvataggio. La colazione si fa tutti insieme, l’equipaggio parla degli arrivi notturni: tre barche, tutte a Capo Korakas, il punto più a nord e più roccioso dell’isola, uno dei più pericolosi su cui sbarcare. I migranti vanno lì perché diventa più difficile intercettarli, e le pattuglie della Guardia Costiera non arrivano sempre fin lì.
Mi spiegano che le barche che arrivano di notte sono soprattutto di legno. Solo oggi, tra le prime ore del mattino e il pranzo, sono arrivati in tutto 1500 migranti.
Noi siamo in acqua alle sei e mezza, è ancora buio nel porto di Molivos, e insieme a noi, pochi minuti prima, partono i ragazzi di Frontex. Una barca bianca, velocissima, con la scritta Policia Nacional: Frontex dipende dall’Unione Europea per quanto riguarda il budget, ma in realtà si tratta di agenti dei corpi della marina degli stati membri.
Questi a Lesbo sono portoghesi, giovani, accompagnati da un agente della Guardia Costiera. Dovrebbero pattugliare i confini, controllare gli sbarchi, provvedere alla registrazione. In realtà, mi viene spiegato dall’equipaggio di Seawatch, che oggi mi ospita a bordo della loro barca da soccorso, partecipano attivamente agli aiuti. Perché quando sei qui, in queste acque, che tu sia di Medici senza Frontiere o della polizia, è molto semplice scegliere da che parte stare, ordini o meno.
Ci si aiuta, tacitamente, comunicandosi rotte e barconi attraverso le radio di bordo, intervenendo se c’è bisogno di velocità. Come oggi: una barca con siriani e iracheni, 13 bambini, una donna incinta in travaglio. Un’emergenza per cui serve il motore potente di Frontex. Che arriva, fa salire a bordo la donna e tutti i bambini, dai tre anni in giù.
L’immagine che oggi resterà impressa nei miei occhi sono gli uomini afghani che hanno iniziato a cantare, sfiorare l’acqua, sorridere e pregare appena capito che erano in salvo. È, in fondo, l’immagine di quello che non ci viene mostrato mai. Il contrario della disperazione: la speranza.
Per saperne di più
Seawatch è un’organizzazione non governativa che grazie alle donazioni dallo scorso aprile, con un gruppo di volontari coordinati da Giorgia Linardi, si occupa del soccorso in mare dei migranti. Prima a Lampedusa, poi a Lesbo, dove si trova in questi giorni. Migliaia di uomini, donne e bambini salvati, solo con tanta buona volontà. E la sveglia alle cinque.