«Tu, Sara, occupati di sistemare i girasoli in tavola. Non vorrei far brutta figura, zia Flavia è abituata ai salotti francesi e al Roland Garros di Parigi. Noi, al massimo, possiamo offrirle una limonata e biscotti di riso, lei ne va matta, fuori, nel nostro piccolo giardino. Non è abituata alla vita bucolica. Non sa neppure dar da mangiare alle galline».
Con voce autoritaria prima e discreta dopo, zia Italia mi istruiva sul da fare, in vista del rientro per le vacanze estive di sua sorella.
Non mi spiegavo il motivo per il quale le piccole di famiglia dovevamo, rigorosamente, ogni anno, indossare quei vestiti abbottonati fin sotto il collo che non ci permettevano di respirare.
«Pulitevi le orecchie, naso, denti, e manine. Non stiamo mica andando a raccogliere le fragole. Tra un po’ arriva».
Ansiose ed incuriosite, ci sistemavamo in fila per ordine di altezza, nell’atrio della casa e a me capitava sempre il primo posto, data la mia bassezza.
Mi arrabbiavo, puntualmente, ogni anno, a quella data. E mi chiedevo, come mai le mie gambe, rispetto allo scorso anno, fossero rimaste alla stessa altezza. Non mi davo una risposta.
Era un susseguirsi di voci, pianti di noi piccole che ci lamentavamo perché da molte ore in piedi, di canzonette cantate dallo zio Ernesto, che ridacchiava, sul vestito della moglie. Era abituato a vederla con il grembiule addosso e notare, in quel giorno, la femminilità che c’era in lei, gli dava gioia e ne approfittava per dedicarle qualche rima.
Zia Flavia, arrivava puntuale.
E faceva ingresso col cappello in testa e con il cagnolino in braccio.
«Le mie adorate nipotine, mi sono mancate».
Come era suo solito fare, ci porgeva nelle mani una caramellina che ci riempiva di allegria e allontanava le lacrime.
Erano giorni di festa e di armonia in casa. Volevo che durasse tutto l’anno. Ma arrivava presto, la fine di quella spensieratezza e gioia.
Seppur piccola, ricordo ancora e con lucidità, la tristezza che mi assaliva all’indomani della sua partenza.