Il primo appuntamento del diario quotidiano di Marika Surace. Da domani Marika sarà a Lesbo, l’isola greca che dall’inizio del 2016 ha accolto circa 25 mila migranti.
Prima della partenza
Circa 25.000 arrivi solo nel 2016. Ovvero nei primi 26 giorni dell’anno, mille al giorno. La fonte è l’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, che presiede le operazioni di accoglienza e registrazione di chi arriva a Lesbo attraversando lo strettissimo canale che separa l’isola greca dalla Turchia. Dieci chilometri di mare aperto, l’ultima tappa prima di mettere piede in Europa. Dopo un viaggio che è un’incognita, l’incognita più grande li aspetta al loro arrivo. Cosa succede a chi sbarca in Grecia, a chi è scappato da guerre e persecuzioni e non sa quando e come il viaggio andrà a finire?
Domani mattina parto per Lesbo, perché dati e immagini non sempre bastano a capire. Perché spesso il racconto degli altri è parziale, ma anche perché bisogna sempre cercare, se si può, di guardare le cose con i proprio occhi. Quello che mi interessa, soprattutto, è osservare come un’isola che ha una superficie di circa 1600 km quadrati, con una popolazione di 90.000 abitanti, stia affrontando quella che viene ancora definita, in modo miope e spesso in mala fede, un’emergenza. Che emergenza non è, visto che gli sbarchi a Lesbo, come quelli a Chios, Samos, Kos, come quelli a Lampedusa o sulle coste calabresi, avvengono ormai da troppo tempo per poter essere definiti qualcosa di inaspettato, imprevisto. Cosa succede su un’isola che vive di agricoltura e turismo, con condizioni economiche spesso precarie, quando ogni giorno, dal mare, arriva la disperazione sotto forma di migliaia di individui che non hanno niente se non la speranza di un rifugio, seppur temporaneo?
La paura è la reazione più normale in questi casi. La paura, la diffidenza, la voglia di recriminare contro istituzioni assenti o poco presenti, la voglia di gridare “E allora noi? Chi aiuta noi?”. Non è egoismo, è normale istinto di sopravvivenza. Domani mattina, dunque, prenderò un aereo per Mitilini, e da lì cercherò di raccontare quello che succede.
Qualche anno fa, dopo la rivolta di Rosarno del 2010 le cui immagini fecero il giro del mondo, quando la guerriglia di paese in cui lo scontro tra deboli e meno deboli si prendeva le strade e i titoli dei giornali, sono stata a visitare, insieme al direttore di questa testata, alcuni dei campi in cui vivevano, e continuano a vivere, le comunità di immigrati che provengono da diverse zone dell’Africa, soprattutto Costa D’Avorio. Ai margini degli agrumeti in cui prestano il lavoro, per 12 ore al giorno e 25 euro di paga se va bene, sono ancora tutti lì. E non è cambiato molto, anzi. È dello scorso mese la notizia delle sprangate da cui, al ritorno dal lavoro, di notte, sulle buie strade statali su cui si muovono a piedi in bicicletta, i braccianti devono difendersi.
Paura, diffidenza, anche se in questo caso aggravate da una crudeltà insensata, e che probabilmente non ha preso bene la mira.
Perché a chi dice “E allora noi?”, si deve rispondere, con semplicità “E allora voi arrabbiatevi, fate bene, ma con le istituzioni. Colpevolmente assenti, doppiamente assenti”. Perché in Calabria c’è anche Riace, un luogo dove invece delle baracche ci sono le case, dove invece delle paghe da miseria ci sono i laboratori e la formazione professionale, invece delle bastonate l’accoglienza e l’integrazione. Un paese piccolissimo, Riace. Un posto come ce ne sono tanti, con una scelta precisa. E replicabile. La Calabria conta una presenza di circa 40000 cittadini non comunitari soggiornanti sul suo territorio. Su due milioni scarsi di abitanti. Il 2% della popolazione, insomma (Fonte Caritas, Ministero degli Interni e associazione Migrantes).
In primavera ricominceranno gli sbarchi anche da noi, con più frequenza di adesso. Le proporzioni con quanto sta succedendo in Grecia, con quanto succede a Lampedusa, non possono avere senso. Può averlo, invece, una riflessione. A Lesbo, mi hanno raccontato, dopo la paura dei primi giorni, è subentrata la compassione. E gli abitanti dell’isola dell’Egeo che noi tutti conoscevamo solo per una poetessa del VII secolo a.C., hanno iniziato ad aprire le loro case e a tendere le loro braccia. Per quanto ancora vogliamo tenere le porte e le braccia chiuse anche noi?