Ci sono fatti che non possono essere commentati a “occhio e croce”, perché se si affrontano di pancia o si corre il rischio di cadere nell’ovvio e nel banale oppure, al contrario, nella tentazione di arrampicarsi su pergolati di conoscenze, distillate qua e là, nella piazza della gente comune o nei salotti mediatici dove siedono gli esperti.
Di fronte a certi episodi, tuttavia, tacere è impossibile, soprattutto quando, nel tessere l’ordito della vita, un filo si spezza e la trama su cui l’umanità intreccia la sua esistenza si sfilaccia, attendendo un rammendo.
I 14 anni di Martina Carbonaro, l’adolescente di Afragola assassinata il 26 maggio 2025 da Alessio Tucci, l’ex fidanzatino diciannovenne, sono l’ennesima sciagura che questa derelitta umanità piange e per cui esclama: “Ancora una volta?”
E tra lo sgomento, la sofferenza, l’indignazione e la protesta, siamo tutti condotti – dagli esperti di cui sopra – sul binario dell’analisi dei fatti e della valutazione della personalità di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda: dai due protagonisti ai familiari, agli amici, alla società “che non è più in grado di proteggere i suoi figli”.
A occhio e croce, a titolo esclusivamente personale, affiorano sentimenti di sconfitta e di desolazione, che inducono a interrogarsi se tutto ciò che si sta mettendo in campo per presidiare beni e valori primari come vita, libertà di scelta, rispetto reciproco sia non solo sufficiente, ma efficace.
Siamo costretti ad assistere, quasi inerti, ad un’escalation non solo di violenza, ma anche di modalità della sua estrinsecazione che sono brutali e inedite: uccidere con una pietra colpendo alla testa è la condotta tipica con cui nel paleolitico gli ominidi si procuravano il cibo.
Siamo davvero all’involuzione dell’umanità, perché i nostri antenati uccidevano o per nutrirsi o per difendersi; noi evolutissimi Sapiens uccidiamo per rabbia.
Quest’ultimo caso dí femminicidio non può richiamare soltanto i temi del culto del possesso o degli effetti di un’educazione patriarcale: c’è molto di più che cova sotto la cenere e striscia pericolosamente fra le nostre abitudini, invadendo la nostra quotidianità.
E anche se questo è terreno dei sociologi e degli psicologi, sento ugualmente di dovermi esprimere: c’è un indomabile e irrefrenabile egocentrismo che muove la società odierna, una condizione di stallo in cui è prioritario appagare se stessi piuttosto che frenarsi di fronte al bisogno altrui, dimentichi che quel bisogno ha valore pari o superiore al proprio.
Dilaga una specie di egoismo che l’educazione, familiare e scolastica, vorrebbe arginare delegandola ad agenti terzi; che al “voglio a tutti costi” non oppone più un rifiuto netto e tranciante, che perimetri il solco del limite invalicabile, pena la sanzione. Ne consegue che si ottiene tutto e subito e quando ciò non avviene, l’ostacolo va rimosso, perché non è ammessa la dicitura “Game over”.
Oggi piango ancora Martina, la sua giovane vita, la sua bellezza ancora in boccio, i primi palpiti del suo cuore adolescente; ma piango pure, incredibilmente, Alessio. Nessuno è un mostro, neanche un femminicida come questo diciannovenne, della cui giovane età la società non può essere dimentica, per la cui atroce condotta non possiamo invocare vendetta, ma solo auspicare ad una giustizia che lo rieduchi e che lo restituisca padrone e custode consapevole di quei valori che ha violato, pagando l’altissimo prezzo della sua libertà.
Di Alessio non possiamo dimenticare che è stato un ragazzo come tanti, troppi altri “bravi ragazzi”, incapaci di gestire le proprie pulsioni e per questo diventati assassini.
I ragazzi della porta accanto, i ragazzi che vivono con noi.
