Secondo appuntamento del diario quotidiano di Marika Surace. Da oggi è a Lesbo, l’isola greca che dall’inizio del 2016 ha accolto circa 25 mila migranti.
Lesbo, primo giorno
La prima cosa a cui pensi è che Lesbo è bellissima. Ricoperta di boschi, la luce che c’è solo nei posti di mare, tersa, pulita. Da Mitilini, la città più importante, dove c’è l’aeroporto, percorriamo le strade che porteranno a Molivos (Mithimna), e che attraversano in diagonale l’isola. Ulivi, capre e perfino la neve che è rimasta dalla scorsa settimana, quando le temperature sono andate sotto lo zero.
Santuari ortodossi lungo le strade che portano a Loutra, paesino sonnolento che sembra una cartolina siciliana, dove gli abitanti, abituati al turismo internazionale, parlano tutti inglese e si prodigano in consigli e informazioni. E poi, per strada, vediamo un cartello: Moria. Il campo di accoglienza trasformato in hotspot dopo le recenti disposizioni UE, che prevedono che avvenga la registrazione di tutti gli arrivi.
Decidiamo di fare una deviazione per renderci conto se sia vero quello che ci hanno detto, che la severità all’ingresso è aumentata e che non fanno entrare più nessuno che non sia un richiedente asilo. La prima cosa che notiamo è l’autobus, un vecchio aggeggio che ha ancora la scritta turistica sulla fiancata, ma che serve a portare chi si è già registrato al porto di Mitilene, da dove ogni giorno partono due navi per Atene.
Il campo di Moria è in uno dei posti più isolati e umidi di Lesbo, altrimenti ricoperta di rocce e pascoli qui c’è fango ovunque, un pezzo di terra è franato e alcuni dei rifugiati stanno cercando, con l’aiuto di contadini del luogo, di dare una sistemata. In realtà riusciamo a osservare solo l’appendice esterna del campo, quella che si è sviluppata quando all’interno del campo è finito il posto. La tenda del cibo, il posto in cui prendere vestiti asciutti (una delle cose più preziose per chi arriva), una specie di parchetto giochi per bambini improvvisato.
Provo a scattare delle foto dall’esterno del campo ufficiale, da cui c’è un viavai di profughi, ma una guardia greca si avvicina a chiedermi cosa stia facendo. Non si possono scattare foto, mi dice, e per entrare ci vuole un permesso ufficiale. Freedom of movement, libertà di movimento, sì, ma non qui.
Il tramonto tinge di rosa le rocce bianche che punteggiano i boschi dell’isola, e mentre andiamo a Mithimna pensiamo a come procurarci i permessi per Moria. Pensando al freddo che abbiamo sentito fermandoci anche solo per mezz’ora al campo, pensando al freddo che ci sarà di notte in quelle tende.