Di Giuseppe Foti, educatore psichiatrico
Viviamo in un’epoca in cui provare un’emozione è diventato sospetto.
Mostrare fragilità è visto come segno di debolezza, manifestare rabbia o
tristezza come qualcosa da reprimere, non da comprendere. È così che la
società contemporanea, nel tentativo di “controllare” il sentire umano, si
sta progressivamente disumanizzando. Ciò che non si esprime, si corrompe
dentro, e ciò che si corrompe dentro finisce per esplodere fuori, in forma di
violenza, apatia, odio o indifferenza. È qui che nasce la vera barbarie del
nostro tempo la barbarie emotiva.
Siamo immersi in un mondo iperconnesso, ma interiormente isolato. Il
digitale ha dato voce a tutti, ma ha tolto profondità alla parola. Le
emozioni, quando emergono, devono essere “funzionali”: sorrisi per i
selfie, indignazione per i trend, rabbia per i like. Nulla che implichi
vulnerabilità autentica. In questo scenario, esprimere ciò che si prova è
diventato un atto rivoluzionario – e per molti, un rischio.
L’uomo moderno, direbbe Jean-Paul Satre (filosofo francese e padre
dell’esistenzialismo), fugge dalla propria libertà perché essa lo obbliga a
sentire, scegliere, esporsi. Ma una società che teme le emozioni è una
società che ha smarrito il contatto con la vita. Quando l’affettività viene
censurata, la violenza si moltiplica. Quando il desiderio è negato, diventa
dominio. Quando la tristezza è taciuta, esplode in depressione o rancore.
Eppure, di fronte a questa crisi del sentire, la risposta politica è stata un
passo indietro. Nelle ultime settimane, il governo ha approvato in
Commissione Cultura un emendamento che limita fortemente i percorsi di
educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Nelle primarie e nelle medie è
stato di fatto vietato parlarne; alle superiori sarà possibile solo con
consenso scritto dei genitori. Una misura che molti hanno letto come tutela
“dei valori familiari”, ma che nei fatti rappresenta un impoverimento
culturale e civile.
Negare ai giovani un’educazione emotiva e relazionale significa lasciarli
soli, preda del mondo digitale che li educa – e li plasma – attraverso
pornografia, modelli tossici di virilità, sessualizzazione precoce e relazioni
prive di empatia. In un paese in cui ogni settimana si piangono nuove
vittime di femminicidio, questa scelta politica non è solo miope, è
irresponsabile. Perché l’unico antidoto reale alla violenza è la conoscenza
di sé, dell’altro e dei propri limiti: ciò che si impara solo attraverso
un’educazione affettiva matura, non attraverso la censura.
Educare alle emozioni (dal latino educere, cioè “tirar fuori”) non
significa “indottrinare”, ma fornire strumenti per riconoscere la rabbia,
distinguere il desiderio dal possesso, comprendere la paura e la
vulnerabilità come elementi costitutivi della vita umana. È costruire
cittadinanza emotiva.
Oggi, la barbarie non si manifesta più solo nei gesti brutali, ma
nell’incapacità di sentire empatia, di ascoltare, di prendersi cura. Abbiamo
smarrito il coraggio di sentire, e con esso la capacità di capire l’altro.
Se vogliamo invertire la rotta, dobbiamo restituire dignità alle emozioni,
riportare i giovani dal mondo digitale al mondo della vita – quello dove si
sbaglia, si ama, si soffre, si cresce. Solo così potremmo uscire dal deserto
emotivo che chiamiamo modernità e tornare, finalmente, alle cose stesse –
a ciò che sentiamo, a ciò che siamo – per tornare a essere, semplicemente
umani.



