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Lesbo terzo giorno – la vita ha un valore troppo alto

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Quarto appuntamento del diario quotidiano di Marika Surace da Lesbo. Oggi ha incontrato Isram e ci racconta la sua storia.

Lesbo – terzo giorno

“Ma Prodi c’è ancora?”. Isram ha 35 anni, parla benissimo l’italiano nonostante sia pakistano, “l’ho imparato a scuola”, dice. E’ stato in Italia quasi quindici anni fa, ma il permesso di soggiorno è scaduto, la madre stava male ed è tornato a casa. Lo incontro fuori dall’agenzia viaggi dove c’è una lunga coda per prenotare il traghetto per Atene, dove ognuno prenderà la sua strada: chi a piedi, chi con i bus organizzati verso la Macedonia. Chi con altri mezzi.

“Sono partito il 26 dicembre, in treno. Poi in macchina attraverso l’Iran, la parte più dura, eravamo tantissimi, stipati in auto scassate, ci hanno preso i telefonini più belli e non si fermavano nemmeno per farci bere o andare in bagno”. Il viaggio viene spesso organizzato come una lunga catena di contatti: si paga tutto a qualcuno, spesso un concittadino che fornisce i numeri di telefono di chi si occuperà delle varie tappe. Poi, più paghi e più viaggi comodo. “Io ho pagato circa quattromila euro, almeno per un po’ ho viaggiato su un bus. Ma la parte peggiore è stata l’arrivo in Turchia: su quelle montagne, per giorni, attraverso la neve, ho visto morire un paio di persone, di freddo e stanchezza”.

Isram sorride sempre, accetta un caffè, offre sigarette ed è guardato come una specie di divo dai compagni di viaggio che lo vedono discutere così facilmente in un’altra lingua. Ricorda di quando faceva il magazziniere a Magenta e ci chiede “Ma Berlusconi c’è ancora? Lui sì che si divertiva!”. Quando è arrivato a Istanbul, un po’ di tregua. Cibo, un posto in cui dormire, al coperto. E poi mille euro per provare l’ultima tappa prima dell’Europa. Dieci chilometri di stretto che sono diventati un incubo. “Ci ho provato quattro volte. La prima si è rotto il motore, la Guardia Costiera è venuta a recuperarci e ci ha arrestati. La seconda un mare terribile, ho visto la morte in faccia, tre ore di incubo in cui ho pensato che forse non vale la pena, che la vita ha un valore troppo alto per metterla così a rischio, anche se si sta male nel proprio paese. E poi altre due volte, finalmente ieri ci sono riuscito”.

Ora, dopo essere stato a Moria, l’hotspot per la registrazione, ha ricevuto un foglio di via. Perché considerato, come tutti coloro che non vengono da zone di guerra, migrante economico. Dunque non meritevole di protezione internazionale. Ma figuriamoci se, dopo tutto quello che ha passato, si ferma qui. “Ormai ci sono quasi, so che è dura, ma sono pronto. Voglio tornare in Italia, lì ho degli amici, ci stavo così bene. E so che voi siete persone ragionevoli. Ai miei genitori ho telefonato, ho detto loro che sto bene, ma ovviamente non gli ho raccontato niente, certamente non la verità sul viaggio. Mia madre sarebbe morta di crepacuore”.

Il mare è calmo oggi, ma le barche arrivate sono poche. Le voci che si inseguono, sull’isola, sono tutte relative alla paura provocata dalle decisioni che si stanno prendendo a Bruxelles, su una probabile sospensione di Schengen e delle sue conseguenze. Tra chi è sbarcato, ci sono circa 50 bambini, da Iraq, Siria e Afghanistan. Ricevono dei giocattoli, alcuni hanno la febbre, altri una forte tosse per l’umidità presa durante il viaggio. Un dottore americano che è arrivato qui la scorsa settimana ci dice che ha riscontrato problemi relativi all’alimentazione ricevuta negli ultimi mesi, povera di tutto ciò che servirebbe loro per una corretta crescita.

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