ROMA – Quel locale nel cuore di Roma, a due passi dai Palazzi della politica, più volte aveva attirato l’attenzione delle forze inquirenti perché, ritenevano i magistrati, era gestito dal malaffare con sede in Calabria. Oggi la conferma che quelle intuizioni, sfociate nel 2011 in un provvedimento di sequestro, andavano nella direzione giusta, tanto da sottrarre definitivamente il noto “Caffè Chigi” alle mani della ‘ndrangheta con la confisca.
Un provvedimento che giunge dopo che , il 23 aprile scorso, la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso presentato contro la sentenza della Corte d’Appello capitolina nel 2012, aveva definitivamente confermato il sequestro e la confisca dei beni nei confronti di Nicola Defina, 41 anni, nato a Toronto (Canada), e residente a Sant’Onofrio, in provincia di Vibo Valentia. Un bar che vale ben 20 milioni di euro, tolti definitivamente alla cosca Gallico di Palmi.
I legami tra i Gallico ed il bar Chigi sono da rintracciare, per gli inquirenti, in Nicola Defina, uomo di fiducia della famiglia palmese, compagno di Sandra Zoccali, l’ex moglie di Domenico Graco, personaggio che la magistratura ritiene vicino ai Gallico. Defina, per non destare troppi sospetti, avrebbe utilizzato un prestanome il quale figurava come proprietario del bene.
Il 30 giugno 2011, il Tribunale di Roma – Sezione Misure di Prevenzione, su proposta della Dia aveva disposto il sequestro di un patrimonio ingente, composto da: una villa di 29 stanze a Formello; due appartamenti a Fiumicino; uno yacht di 21 metri; 11 autovetture; 90 tra conti correnti e rapporti finanziari; diverse società intestate a prestanome; 11 società, tra cui l’Adonis, una s.r.l. con sede a Milano che aveva assunto dal 2009 la gestione del prestigioso Bar Chigi di a Roma. Gli inquirenti avevano anche sequestrato una serie di altre società operanti nel settore dell’intermediazione finanziaria. Contestualmente il Tribunale aveva applicato nei confronti di Defina e Greco la misura sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno per la misura di anni tre, riconoscendo la loro pericolosità sociale.
Il provvedimento del Tribunale era stato confermato dalla Corte d’Appello di Roma prima che la Corte di Cassazione, con la decisione dello scorso 23 aprile, rigettando l’impugnazione proposta da Defina, ponesse fine alla vicenda, rendendo definitivo la confisca dei beni da parte dello Stato.
Viviana Minasi