Si chiama Wagatha, ha 22 anni ed è incinta di otto mesi. Ma soprattutto è una dei 284 profughi sbarcati oggi pomeriggio al porto di Gioia Tauro (guarda il video).
Attorniata dalla sorella e amici conosciuti durante il lungo viaggio trascorso insieme, Wagatha non si lamentava di nulla.
Appoggiata su una delle coperte fornite dalla Caritas in una stanzetta del capannone dov’è stata portata, esile ma con un pancino pieno, la giovane donna ha raccontato di voler raggiungere presto il marito in Germania.
Poche parole in un inglese accennato, ma Wagatha ha alle spalle un viaggio durato settimane. Partita dall’Eritrea insieme ai suoi compagni è infatti passata dal Sudan e dalla Libia, prima di poter prendere il barcone (dopo aver pagato mille e seicento euro) che, tra tempeste e intemperie l’ha condotta in Italia.
“Faceva freddo e stavamo stretti”, ha raccontato, aiutata nell’esprimersi dalla sorella e da una giovane coppia che portava con se una bimba di otto mesi, Sara, vestita con una tutina che certamente non poteva andare bene per la notte.
Tante altre donne tenevano per mano i loro figli di 4, 5 o 6 anni. Nessun evidente timore da parte loro. Tutt’altro. Cercavano di capire cosa chiedessero medici e volontari attenti alle varie esigenze.
Ma gli occhi parlavano da soli. E raccontavano stanchezza, speranza, confusione e forse inconsapevolezza.
Non sapevano neanche che sarebbero arrivati in Calabria, tantomeno la prassi da seguire o intuizioni sul da farsi.
Uno di loro ha raccontato dei brutti momenti passati in balia delle onde mentre stringeva a sè la figlioletta. Proprio come aveva fatto su quella barca. Ma un attimo dopo chiedeva già indicazioni sulle distanze per arrivare a Roma o a Bari.
Come se volesse organizzarsi un minimo su come muoversi. Credeva di essere in Sicilia senza neanche sapere che fosse un’isola.
Sono persone che partono sperando di trovare qualcosa di meglio rispetto a quello che si lasciano alle spalle. Ma è solo una speranza. Un tentativo.
Stanotte rimarranno al capannone, dormiranno sulle brandine fornite dai volontari e perlomeno staranno sulla terraferma. Ma chissà quanti di loro davvero riusciranno a dormire. E chissà se Wagatha accarezzandosi la pancia, si domanderà se ha fatto la cosa giusta, per lei e per quel bimbo che ancora prima di venire al mondo si trova già davanti una salita ripida e senza agganci.
Eva Saltalamacchia